di Trinità, di Villanova, della Chiusa, dalle rudi voci, dagli aspri dialetti, dai fieri volti. — Giovani di nerbo e di testa, — esclamò il Rogelli; — dopo cinque settimane di servizio son soldati! — Vini forti e secchi, — disse l’agronomo; — dopo cinque anni di bottiglia, sono un’essenza da principi! — Sono bella gente, — osservò la signora. — Sono Alpini, — rispose modestamente il cugino.— E come ci tengono! Lei dovrebbe vedere alla visita di leva, quando si dice a un aspirante Alpino: — Sei troppo debole, — come si fanno rossi dal dispetto e dalla vergogna. — Ma io ne porto un paio di zaini! — rispondono; perchè vogliono entrar negli Alpini a ogni costo; anche per non allontanarsi da casa, si capisce; ma molto più per amor proprio, in faccia alle ragazze del paese, a cui voglion far la corte con la penna in capo. La signora avrebbe voluto ritrarre il battaglione con la fotografia istantanea. — Ma che! — esclamò il Rogelli.— Questi non sono Alpini! — Bisognava coglierli in marcia, all’apparire d’un villaggio, dove sperano di ballare la sera, quando tutti si rianimano e s’aggiustano sul cappello le stelle di montagna, che non c’è verso di fargliele levare, a quei don Giovanni alpestri ambiziosi. Bisognava vederli dall’alto, quando formano una striscia nera e serpeggiante su per i fianchi nevosi del monte, lunga a perdita d’occhi, che si spezza, si riannoda e lampeggia facendo risonare la valle deserta di risa e di canti, ripercossi dall’eco di cento gole. Bisogna vederli sfilare come fantasmi sulle vette altissime, velati e ingigantiti dalla nebbia, o far la