schianti e lampi di fulmine, che rischiarano il viso pallido di Buonaparte: i figli di Cairo, di Montenotte, di Dego, di Millesimo; di quei memorabili monti, dove i piemontesi contrastarono per quattro anni, di rupe in rupe e di gola in gola, il passo alla Francia. Erano soldati delle terre dove il Genovesato e il Piemonte si toccano, confondendo i linguaggi e le costumanze; nati fra gli alti boschi di castagni e di faggi, tormentati dai venti del mare, che spandono per le solitudini un lamento pauroso e solenne; degni veramente di chiamarsi liguri fra i loro vicini della marina e piemontesi tra i loro fratelli del Monferrato; saldi al lavoro, arrendevoli alla disciplina, bravi come i molti padri loro che onorarono il sangue italiano nella legione immortale di Montevideo. E venivan tra loro i piemontesi pretti di Murazzano, di Donesiglio, di Dogliani, i figliuoli dell’altera Ceva, già dura ai denti di Napoleone, e quelli che le madri portarono in fascie a baciar l’altare della Madonna di Vico. — Viva Ormea! — gridò la folla. — Viva Bossolasco! Viva Sassello! — L’agronomo avrebbe voluto gridare: — Viva il vino Dolcetto; — ma confidò il suo pensiero a me solo. Il Rogelli, pratico di quei paesi, ricordava le belle prese di pernici e le grandi canestrate di tartufi bianchi. E riprese a decantare il reclutamento alpino, grazie a cui una buona parte dei giovani nei battaglioni son conoscenti vecchi. Vi si trovano accanto il padron di casa e il suo inquilino; e molte volte il proprietario d’un podere, soldato semplice, e il suo affittavolo, caporale; o i figliuoli di due consiglieri comunali