avessero lavorato tutta la mattina quattro fantesche olandesi. Per tre piccole finestre a sesto acuto vedevamo i monti circostanti, null’altro che i monti, i quali riempivano tutti e tre i vani, come tre tendine verdi e turchine. Non si può dire la quiete, la freschezza, la semplicità di quel luogo. E la voce del pastore, dolce e lenta, era come una musica che accompagnava e traduceva il linguaggio delle cose. Egli ci raccontava dell’inaugurazione di quel tempio, fatta sei anni fa; alla quale erano accorse tremila persone, che non potendo in chiesa, s’eran raccolte in un prato, e molti oratori avevan parlato alla folla dall’alto d’un tetto, apostrofando le montagne gloriose e terribili; dopo di che Pra del Torno, silenzioso da quasi due secoli, era ricaduto nel suo silenzio profondo, che non sarà forse più turbato per altri secoli. Poi ci parlava dei suoi viaggi in montagna, di quando va a predicare ai pastori delle capanne di Soiran, dell’Infernet, di Giacet, della Cella, della Cella veia; e ascoltandolo, provavo un senso d’ammirazione, e anche una certa tristezza, a pensare che, mentre io ero nel mio studio, al caldo, a giocare con l’immaginazione, lui, quell’uomo così colto e gentile, se n’andava su per i monti, per sentieri dirupati, in mezzo alle nevi, incontro ai venti gelati, tutto solo, con un pezzo di pane e con la Bibbia, a predicare la bontà, la rassegnazione e la preghiera. Ma al vedere com’egli parlava della sua solitudine e delle sue fatiche con assai più compiacenza ch’io non provi mai a parlar dei miei giochi, mi rimaneva ancora l’ammirazione, ma scappava la tristezza, per ceder il posto all’in-