pianura, per quanto avesse inteso dire dell’orridezza dei luoghi, s’immaginasse appunto la natura e la grandezza delle difficoltà che presentava quella valle a un esercito assalitore: il primo aspetto di quelle montagne scemava alquanto l’animo anche ai più audaci. Inoltre, riuscendo oltremodo difficile ai generali il calcolare le distanze con esattezza, accadeva facilmente che le varie colonne non arrivassero nello stesso tempo nei varii punti prefissi all’assalto, e che si trovassero l’una dopo l’altra ad aver di fronte tutte le forze del nemico. Partite in buon ordine, serrate e rapide, s’allungavano a poco smisuratamente per i sentieri angusti e in mezzo agli alberi fitti, spezzandosi, sfuggendo di mano ai propri uffiziali, perdendo molta parte della loro forza organica prima di arrivare sul luogo del combattimento. E la disparità d’armamento che correva fra loro e i nemici, era quasi tutta in loro svantaggio. Coperti di caschi, di corazze di ferro, d’armi pesanti, non usati a camminare sull’erbe liscie e sui sassi malfermi della montagna, sdrucciolavano, rabbiosi, stramazzavano, perdevano l’impeto dell’assalto a mezza salita, e arrivavano diradati e trafelati in faccia ai Valdesi freschi di forze e immobili. Questi, non armati da principio che di fionde, d’archi e di picche, difesi da corazze di scorza d’albero o di pelli vellose, leggieri, esercitati a piantare il piede sulle rocce come un artiglio d’acciaio, destrissimi alle salite ripide e alle discese precipitose, conoscitori di tutti i passaggi, di tutti i nascondigli, di tutte le difese naturali del terreno, volavano,