porgeva da bere con molta grazia, poco più che decenne; dell’età appunto in cui li cercavano le patrizie torinesi dopo che quell’anima pia della marchesa di Pianezza aveva messo alla moda di portar dietro alla carrozza un lacchè barbetto, a modo di trofeo vivente strappato all’esercito dell’eresia. Di là, guardando dalla parte opposta a Torre Pellice, al disopra degli alberi dell’orto, rossi di mele e di lazzerole, godevamo d’una veduta ammirabile: l’alto della valle, chiuso da tutti quei monti, che par che s’incastrino gli uni fra gli altri, e cerchino di coprirsi a vicenda; dietro al contrafforte che si spicca dal Vandalino, le Rocciaglie che si staccano dal monte Servin, e dietro alle Rocciaglie un altro monte, e di là da quello il monte Roux, il re delle valli, in berretta bianca; simili, così di lontano, a una successione d’immense muraglie verticali, tagliate obliquamente, e così strette fra loro, da lasciare appena il passo ad un uomo. Si capisce come quello spettacolo dovesse destare una viva inquietudine nei soldati cattolici non esperti della montagna, la prima volta che vi si trovavan davanti. A chi non sapesse nulla, parrebbe infatti di non poter fare due miglia innanzi senza andar a battere il capo in una gigantesca parete di granito. Non sembra più che debba continuare la valle dietro al primo contrafforte; ma serpeggiare non so che orribile corridoio, in cui manchi l’aria e la luce, una formidabile trappola da eserciti, dove una colonna assalitrice abbia da rimaner presa e schiacciata come una processione di formiche in mezzo alle pietre d’una macina, o