in un luogo disabitato, se non avessimo sentito i colpi di piccozzo di tre muratori che lavoravano a fabbricare una casetta. Il signor Bonnet, nondimeno, compì il miracolo di farci trovar da colezione. Ci condusse in casa di un contadino, il quale ci apparecchiò la tavola sopra un terrazzino di legno, e ci servì, per trattarci da signori, tre dozzine d’uova al guscio, domandandoci se doveva metterne al fuoco dell’altre. Questo grandioso imbanditore era un ex-sindaco d’Angrogna; una figura singolare, con due grandi occhi oscuri vivacissimi e un sorriso pieno d’arguzia: senza baffi, la barba nel collo, un Valdese pretto, di quegli angrognini, di cui ci parlò il Bonnet, frequenti nella parte alta, rari nella parte bassa della valle, i quali danno alle volte sui sermoni dei pastori dei giudizi critici d’un’acutezza e d’una precisione di parola, da far rimanere. Era vestito rozzamente; ma pareva piuttosto un banchiere o un impresario di strade ferrate andato a male, che un contadino. Con la sua famiglia parlava il dialetto, col pastore il francese, e con noi, alla meglio, l’italiano, scherzando, ma con garbo. Vedendoci impicciati a mangiar l’ova senza ovarolo, tagliò una grossa fetta d’uno di quei pani neri, durissimi, che fanno una volta al mese, ci aprì dentro un buco della forma d’un ovo, e la mise davanti a un di noi, dicendo lentamente, col tuono di chi sa di dire una cosa che farà effetto: — Il bi-so-gno fa na-sce-re l’in-du-stria. — Tutti i suoi figliuoli avevan quegli stessi occhioni pieni d’ingegno; uno principalmente, un bel ragazzetto che ci