Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/196

182 alle porte d’italia

sieme e amorevole, mi richiamò alla mente quell’infelice Mathurin, e quella sua brava e buona Giovanna che volle morire con lui, nel 1560, legata alla stessa trave, sulla medesima catasta di legna, in faccia all’inquisitore generale e al prevosto generale di giustizia, nella piazza maggiore di Carignano. Quella stessa campagna così fiorente, la vedevo nuda in qualche momento, devastata, sparsa di rovine affumicate e di vestigia turpi d’accampamenti, come doveva offrirsi allo sguardo quando vi seguivano i casi maravigliosi che la resero celebre. Casi meravigliosi, infatti, anche per la mescolanza incredibile che presentavano di solenne, di bizzarro, di tragico, e a volte di ridicolo dall’una parte e dall’altra. Che strana cosa, quei brillanti aiutanti di campo che entravan di carriera nei villaggi, a intimare: — O alla messa fra ventiquattr’ore, o la morte! — e che riportavano al generale quelle risposte: — Meglio mille volte la morte che la messa! — E quei legati delle due parti che, nelle interruzioni dei combattimenti, si radunavano, ancora neri di polvere e stravolti, a disputare sul sacramento del battesimo, sulla supremazia del Papa e sulla transustanziazione! Strani, degni del pennello di un grande umorista, quegli sgomberi forzati dei conventi, quei monaci portati via sulle spalle dalle donne in mezzo alle grida festose del popolo: io li vedevo, per quelle strade, beccheggiare al di sopra delle teste della folla, come barconi sopra un’acqua agitata, e mi pareva che non fossero mica spaventati, alcuni di quei fratoni, di sentirsi di