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la ginevra italiana 177

più volte rovinato e rifatto; con la storia del quale è legata in gran parte la storia del popolo valdese. Ora non ne rimangon che pochi ruderi, quasi nascosti dalle piante. Di là si vede, sotto, tutto Torre Pellice, e i due torrenti, e più lontano, Luserna, e a destra e a sinistra, monti dietro a monti, e poi la pianura infinita: tutto così bello e felice quando splende un sole d’oro nel mezzo d’un cielo di zaffiro, ripulito da una buona arietta di settembre. Eppure quello è uno dei più sciagurati e dei più sinistri luoghi del mondo; il luogo dove risedettero, trincierarono i loro reggimenti, ordirono le loro trame, e diedero i loro ordini terribili quei governatori di nefanda memoria, quel conte della Trinità, quel Castrocaro, quel marchese di Pianezza, quel conte di Bagnolo, al suono del cui nome par di sentire confusa un’eco lontana di grida di raccapriccio e d’angoscia. L’enorme macchina di tortura che per centinaia d’anni spremette sangue, oro e disperazione dal popolo valdese, era piantata là, su quel poggio così gentile. Di là partivano, a grosse colonne, quegli eserciti feroci, composti in parte di soldati regolari, in parte di volontari, di campagnuoli fanatici, d’irlandesi banditi dal Cromwell, di saccheggiatori e di scampaforche, che i governatori sguinzagliavan nelle valli come branchi di mastini a fare le vendette del Dio dell’Inquisizione. E là riparavano, ritornando dalle spedizioni contro Villar, Bobbio, Comba, Taillaret, Rorà, Pra del Torno, cacciandosi innanzi il loro bottino vivente, famiglie cariche di masserizie, seguite dal bestiame delle proprie terre, pastori incatenati

De Amicis. Alle Porte d'Italia. 12