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Intanto, giù nella piazza, il fermento cresceva; le voci s’alzavano, la folla ondeggiava; a ogni finestra s’alzavano cinque, sette, otto visi, gli uni sugli altri; c’era gente sul tetto della chiesa e sui comignoli delle case; pareva che gli edifizi vivessero e parlassero, e in tutte le vie circostanti fluttuavano dei fiumi neri. Il notaio andava e veniva per le stanze, come brillo, battendo le mani sulla spalla, ora all’uno, ora all’altro, e gridando: — Padre della patria!... Padre della patria vorrà esser chiamato il nostro grande, il nostro gloriosissimo Duca Emanuele Filiberto! Pater patriae! Padre- del-la-pa-tria! — E per la contentezza della sua trovata voleva batter la mano, come al solito, sulla testa di ferro del nipote; ma lo risparmiò, vedendo che anche lui, quel bestione, pareva finalmente commosso. Le campane empivano l’aria di una romba continua e assordante; la gran voce della folla entrava e risonava in tutti i recessi della casa. All’improvviso il rumore si chetò e una notizia corse. Il corteo era alla porta di Torino. Tutti si gettarono alle finestre. Evelina in mezzo al padre e alla madre, sul terrazzo; il Benavides dietro; gli altri schiacciati contro il muro. Passarono altri pochi minuti. Tutti i visi erano rivolti verso il fondo di via del Duomo. Evelina si sentiva saltare il cuore fino alla fontanella della gola. Nella piazza si taceva. S’udì un suono