ciato l’apparizione del Duca al Belvedere; di là egli sarebbe arrivato in tre quarti d’ora a Porta Torino. Una ondata di zie e di cugine aveva empito la casa del notaro. Oltre al terrazzo, le finestre erano tre: una fu assegnata ai ragazzi: da tutte si vedeva obbliquamente il punto dove il corteo sarebbe apparso e quello dove sarebbe sparito. Un ronzìo diffuso e crescente si spandeva per l’aria. La folla, aperta a stento da due file di archibugieri, si rimescolava. Erano cittadini di Pinerolo, abitanti dei villaggi, gente venuta fin da Perosa, da Cavour e da Saluzzo, montanari discesi dalle Alpi, ravvolti in mantelli sbrendolati, con le berrettine nere sotto i cappellacci a larga tesa, con lunghi bastoni nel pugno, alpigiane infagottate in casacconi da uomini, coi ragazzi per mano. E avevano tutti davanti alla mente una sola immagine, quella figura quasi favolosa di Emanuele Filiberto, che nessuno aveva mai visto, di cui tutti parlavano da tanti anni, e che ciascuno si rappresentava a modo suo, gigantesco, spaurevole, sorridente come un padre, superbo come un nume, coperto d’oro, irto di ferro, fantasticamente vestito ed armato. I cuori battevano per la febbre dell’aspettazione. E batteva più di tutti quello di Evelina. Ma un pensiero l’atterriva quasi: il sospetto che il Benavides non venisse. Doveva partire la mattina dopo. Essa avrebbe dato il sangue per rivederlo ancora una volta. Una scampanellata improvvisa la fece tremare da capo a piedi. La folla degl’invitati s’aperse, inchinandosi; il Benavides venne innanzi, grande e elegantissimo, con