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emanuele filiberto a pinerolo 137

le mani inerte sulle ginocchia, e con gli occhi fissi alla parete, per molto tempo. Gli affari del Benavides erano accomodati; dopo l’entrata del duca sarebbe tornato in Catalogna; egli non rimaneva che per rivedere, dopo diciassette anni, il suo glorioso generale di San Quintino, forse per l’ultima volta; e il giorno dopo sarebbe partito, ed essa non l’avrebbe rivisto mai più, certamente. E allora tutto sarebbe finito. Tutto? Che cosa? Nulla. Un sogno. Nemmeno un sogno. Eppure si sentiva un nodo di pianto nell’anima. Egli era così nobile d’aspetto e di cuore, così rispettabile in quella sua tristezza austera per la morte di sua madre, e doveva nascondere dei così grandi tesori di bontà sotto quella compostezza taciturna, che dava tanta dignità alla sua bellezza! Come doveva essere profonda e generosa l’amicizia, in lui, e l’amore grande e gentile! E che dolci, ardenti, possenti parole gli dovevano sgorgare dal cuore, quando un impeto di passione e di tenerezza lo moveva! No, ella non avrebbe mai più incontrato nella vita un’anima così nobile e così bella. Ed egli partiva senza averle dato mai un segno d’affetto e d’amicizia. Era troppo povera cosa per lui. Eppure, l’avrebbe guardata con occhio assai diverso, l’avrebbe forse anche amata, a poco a poco, se non fosse stata di una condizione di tanto inferiore alla sua. Essa avrebbe saputo farsi amare, forse! Non si sentiva mica indegna di lui, dentro al cuore. Egli l’avrebbe dovuta indovinare. Come non l’aveva indovinata, come non gli era nato, in tanto tempo, un