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tare quella casa perchè ci sapeva di buona gente, e non per altro. Era triste; non aveva sorriso; lasciava cascar la conversazione quando non lo interrogavano. Ma per fortuna di Evelina, l’argomento dei discorsi soliti era inesauribile. Dal giorno in cui Emanuele Filiberto, ragazzo, s’era gettato in ginocchio davanti a Carlo V, a Genova, supplicandolo che lo conducesse alla guerra d’Algeri, fino all’anno che correva, 1574, avevano trentadue anni della vita del Duca da ricorrere, trentadue anni pieni d’avventure da epopea e da romanzo, intorno alle quali il Benavides, legato d’amicizia con molti personaggi spagnuoli della Corte e degli eserciti, sapeva mille particolari preziosi, non noti che a pochissimi. Discorreva delle strettezze compassionevoli in cui s’era trovato il Duca al tempo del suo primo viaggio in Germania, della sua vita d’accampamento, quando comandava, appena diciottenne, la cavalleria fiamminga e borgognona contro la lega di Smalcalda, e dell’astio geloso preso contro di lui da Filippo II dopo la battaglia di San Quintino, e dei suoi viaggi avventurosi, quando tornava nei propri Stati e ne ripartiva travestito come un congiurato vagabondo, con l’angoscia nel cuore; e quando pareva che avesse tutto detto, le interrogazioni ingegnose della ragazza gli richiamavano alla mente e gli facevano dire nuove cose. Un giorno raccontava in che maniera avesse salvato Barcellona dallo sbarco notturno dei francesi; descriveva un altro giorno un suo vezzo di stropicciare l’elsa della spada quando s’impazientiva, in modo che tutti i circostanti fissavano la sua