un omaggio molesto il suo giovane cuore notarile, egli aveva preso a odiarlo come un rivale e come un nemico. Quel nome di Emanuele Filiberto, ogni volta che l’udiva pronunciare, gli metteva un bruciore intollerabile alla bocca dello stomaco, e San Quintino era per lui il più infausto santo del calendario. Da principio, per gratificarsi la signorina, aveva finto anche lui una profonda ammirazione per il Duca, e provato a rincarare le lodi ogni volta che glie le sentiva intonare; ma lo faceva di così mala grazia, con una voce così ingrata, che invece di entrarle nel cuore con quell’artificio, s’era fatto pigliare in uggia peggio di prima. E allora aveva mutato registro; s’era ingegnato per un pezzo di scalzare e di abbattere il suo rivale rodendo a poco a poco col dente della critica la sua grandezza e la sua gloria. — In fin dei conti, la battaglia di San Quintino l’aveva vinta con un esercito spagnuolo; la vittoria di Gravelines era principale merito del conte di Egmont; il Piemonte si trovava sempre in pessime acque; Asti e Santhià erano ancora in mano degli spagnuoli; il “grande„ Duca non aveva nè fatto trionfare le sue ragioni sopra Ginevra, nè ritolto alla Francia Pinerolo, Savigliano e Perosa; era certamente un principe “considerevole„ ma non si poteva chiamare ancora “un grand’uomo„; bisognava aspettare dell’altro. — Ma la signorina lo rimbeccava terribilmente. — Tacete! — gli gridava coi denti stretti, tutta vermiglia d’ira, facendo sibilare col suono d’una lama mulinata il suo rapido e vigoroso dialetto subalpino — è la più insensata, la più