di Savoia. Suo padre si ricordava d’averlo visto a Nizza nel 1535, un anno prima della caduta di Pinerolo, in compagnia di Aimone di Ginevra, barone di Lullins, suo precettore, quando non aveva che sette anni, e lo chiamavano il cardinalino, perchè destinato al sacerdozio; e lo descriveva: piccolo, gracile, d’aspetto pensieroso e nobile. Ma non poteva dare null’altro in pasto alla curiosità ardente della figliuola, smaniosa di ragguagli minuti intorno al capitano, al sovrano e all’uomo; e però essa affollava di domande, timide, ma incalzanti, lo straniero benvenuto, facendosi rimproverar sovente da sua madre, alla quale pareva poco conveniente a una ragazza e poco rispettosa per un nobile quella perpetua interrogazione. No, a lei non pareva possibile che quel signore, col quale parlava, avesse proprio veduto e inteso parlare Emanuele Filiberto a pochi passi di distanza, su quel campo di battaglia famoso, dov’egli aveva tenute in pugno e decise le sorti della Spagna e della Francia, pigliando in una sola formidabile retata tutto il possente esercito del conestabile di Montmorency. Era nondimeno vero, grazie a Dio; il Benavides, ufficiale a diciott’anni, aveva fatto parte del seguito del barone di Brederode, morto a San Quintino; era stato testimonio dell’atto superbamente ardito del Duca, quando, la mattina del dieci agosto, cacciatesi dentro alla corazza, senza leggerle, le relazioni dei generali che gli stavano attorno, tutti concordi a consigliarlo di non attaccare battaglia, aveva gridato ai trombettieri, alzando la spada: — Sonate l’assalto! — l’aveva visto