sorgon di faccia, l’Albergian fra le quali, vestite di foltissimi boschi neri, coronate di nuvole bianche, e come squarciate da valloni scoscesi e selvaggi, per cui dirocciano le acque simili a rigagnoli d’argento fuso; e più lontano gli altri monti altissimi e brulli, sfumati di mille tinte cinerine; e tutto in giro, alle falde dei monti, e pei colli, quegli innumerevoli piccoli scacchi delle coltivazioni, tutti eguali di grandezza, ma svariati di cento colori giallastri, verdi, rossicci, dorati, che paion parati di velluto e di seta distesi per una festa misteriosa da un popolo sconosciuto; ecco uno spettacolo grande, severo, strano, triste e bellissimo, che leva l’animo in alto come un inno di guerra accompagnato da una musica sacra. Tutta quella varietà di grandi linee ripide, e come violentemente spezzate, quegli angoli enormi, quelle verticali temerarie, quei contorni grandiosamente disordinati come d’un ammasso formidabile di macigni precipitanti, danno l’immagine d’un linguaggio muto che dica cose solenni e tremende, le quali si sentano confusamente, senza comprenderle, ma che, comprese, ci farebbero tremare le ossa, come la rivelazione d’un mistero sovrumano. Giù, vicino alla città, si vedon sopra un’altura le rovine sparse del forte di Mutino, eretto da Luigi XIV. Dalla parte opposta, alle spalle della fortezza, al livello quasi del forte delle valli, di là da un altissimo ponte levatoio, si stende con un dolce declivio verso Fenestrelle la vasta prateria che il Catinat rese famosa, svernandovi con diecimila soldati nel 1692; una bella