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86 | alle porte d’italia |
Che scala con l’effe, corpaccio d’un cane! bisognava ripetere a ogni gomito. — L’unica consolazione, diceva quel capo ameno del sergente, è di pensar che è sicura. — Salivamo adagio adagio, tacendo per lunghi tratti, con tutte le apparenze d’una profonda venerazione per il luogo, come se salissimo per le scale d’una reggia, in cima alla quale ci aspettasse un monarca d’Oriente, col nostro destino nel pugno. Per un pezzo c’eravamo confortati con dei versi, e bastandoci ancora la lena, avevamo cominciato a dire degli esametri; ma poi via via che s’accorciava il respiro, eravamo venuti stringendo i metri, fino a non recitar più che il famoso sonetto francese
Frèle, |
e infine ci parvero troppo lunghi anche questi. Gli stessi calembours cadevano a terra spossati appena sfuggiti dalla bocca. Per le feritoie vedevamo giù dei pezzetti verdi di valle, dei tratti bianchi di strada su cui si movevano delle figure umane minuscole; e a pochi metri da noi, per aria, delle fortunate secchie di muratori, che andavano e venivano in tre quarti d’ora dalla sommità della fortezza al fondo della valle, sospese a due fili di ferro, mossi da un congegno a pulegge. A quando a quando, sentivamo parlare degli operai genovesi e lombardi, che lavoravano di fuori, invisibili a noi. Due o tre volte, ci raggiunsero per le scale e