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ad alessandro manzoni.




Mio ottimo e venerato Signore,

Non posso tacervi ch’io pure mi ero un po’ maravigliato, perchè Voi nel discorrere dell’unità della Lingua e dei mezzi di diffonderla, non aveste dato neanco un cenno dei due libri, che ci rimangono, del Trattato di Dante sulla Volgare Eloquenza. Ed ora che vi piacque di offrircelo in una Lettera al dottissimo professor Bonghi, oso promettermi di non isgradirvi, se vi richiedo qualche schiarimento in proposito. Il mio grande amore a Dante e all’Italia, che vi riguarda com’uno de’ suoi più sicuri maestri, m’obbliga a parlarvi con piena fiducia, benchè trattenuto da quella riverenza «Che più non dee a Padre alcun figliuolo.» Alle vostre sentenze siami lecito di metterne in riscontro parecchie altre di Dante, non meno chiare e risolute; giudicatene Voi stesso.

Gli è verissimo che al libro De Vulgari Eloquio è toccata «una sorte non nuova nei suo genere, ma sempre curiosa e notabile, quella cioè d’essere citato da molti e non letto quasi da nessuno.» Ne ciò è tutto, giacchè, per quanto siasi parlato e riparlato di cotal prezioso volume, bisogna pur dire che non se ne meditò punto il proprio titolo. E sì, che questo solo, lasciato tal quale ci venne dall’Autore, avrebbe, se non finita ogni quistione, almeno dischiusa la via a scioglierla nel miglior modo. II Boccaccio in quel testo da Voi allegato, dice che Dante «già vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa latina, il quale egli intitolò: De Vulgari Eloquentia,» siccome aveva promesso nel Convito, e giusta l’intenzione che più volte gli accadde di affermare in esso Libretto. In questo difatti si propose e s’accinse a darne dottrina intorno alla Eloquenza Volgare.