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inferno - canto xviii 79

     Giá eravam lá ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
102e fa di quello ad un altr’arco spalle.
     Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
105e se medesma con le palme picchia.
     Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
108che con li occhi e col naso facea zuffa.
     Lo fondo è cupo sí, che non ci basta
luogo a veder senza montare al dosso
111de l’arco, ove lo scoglio piú sovrasta.
     Quivi venimmo; e quindi giú nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
114che da li uman privadi parea mosso.
     E mentre ch’io lá giú con l’occhio cerco,
vidi un col capo sí di merda lordo,
117che non parea s’era laico o cherco.
     Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sí ’ngordo
di riguardar piú me che li altri brutti?»
120E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
     giá t’ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
123però t’adocchio piú che li altri tutti».
     Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giú m’hanno sommerso le lusinghe
126ond’io non ebbi mai la lingua stucca».
     Appresso ciò lo duca: «Fa che pinghe»
mi disse «il viso un poco piú avante,
129sí che la faccia ben con l’occhio attinghe
     di quella sozza e scapigliata fante
che lá si graffia con l’unghie merdose,
132e or s’accoscia, e ora è in piedi stante.
     Taide è, la puttana che rispose
al drudo suo quando disse ‛ Ho io grazie
135grandi appo te? ’: ‛ Anzi maravigliose! ’
     E quinci sian le nostre viste sazie».