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56 la divina commedia

     La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
66morte comune e de le corti vizio,
     infiammò contra me li animi tutti:
e li ’nfiammati infiammar sí Augusto,
69che i lieti onor tornaro in tristi lutti.
     L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
72ingiusto fece me contra me giusto.
     Per le nuove radici d’esto legno
vi giuro che giá mai non ruppi fede
75al mio signor, che fu d’onor sí degno;
     e se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
78ancor del colpo che ’nvidia le diede».
     Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace,»
disse ’l poeta a me «non perder l’ora;
81ma parla, e chiedi a lui, se piú ti piace».
     Ond’io a lui: «Domanda tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
84ch’i’ non potrei, tanta pietá m’accora!»
     Perciò ricominciò: «Se l’uom ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir prega,
87spirito incarcerato, ancor ti piaccia
     di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
90s’alcuna mai da tai membra si spiega».
     Allor soffiò lo tronco forte, e poi
si convertí quel vento in cotal voce:
93«Brievemente sará risposto a voi.
     Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
96Minòs la manda a la settima foce.
     Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma lá dove fortuna la balestra,
99quivi germoglia come gran di spelta.