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inferno - canto xii 53

     Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran Centauro disse: «E’ son tiranni
105che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
     Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Donisio fèro
108che fe’ Cicilia aver dolorosi anni;
     e quella fronte c’ha ’l pel cosí nero,
è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo,
111è Opizzo da Esti, il qual per vero
     fu spento dal figliastro su nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
114«Questi ti sia or primo, e io secondo».
     Poco piú oltre il Centauro s’affisse
sovr’una gente che ’nfino a la gola
117parea che di quel bulicame uscisse.
     Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
120lo cor che ’n su Tamici ancor sí cóla».
     Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto il casso;
123e di costoro assai riconobb’io.
     Cosí a piú a piú si facea basso
quel sangue, sí che cocea pur li piedi;
126e quindi fu del fosso il nostro passo.
     «Sí come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema,»
129disse ’l Centauro «voglio che tu credi
     che da quest’altra a piú a piú giú prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
132ove la tirannia convien che gema.
     La divina giustizia di qua punge
quell’Attila che fu flagello in terra
135e Pirro e Sesto; ed in eterno munge
     le lagrime, che col bollor disserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
138che fecero a le strade tanta guerra».
     Poi si rivolse, e ripassossi ’l guazzo.