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CANTO XII
Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel ch’iv’er’anco,
3tal ch’ogni vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
6o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sí la roccia discoscesa,
9ch’alcuna via darebbe a chi su fosse;
cotal di quel burrato era la scesa:
e ’n su la punta de la rotta lacca
12l’infamia di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, se stesso morse,
15sí come quei cui l’ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
18che su nel mondo la morte ti porse?
Pártiti, bestia: ché questi non viene
ammaestrato da la tua sorella,
21ma vassi per veder le vostre pene».
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ha ricevuto giá ’l colpo mortale,
24che gir non sa, ma qua e lá saltella,
vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco!
27mentre ch’è in furia, è buon che tu ti cale».
Cosí prendemmo via giú per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviénsi
30sotto i miei piedi per lo novo carco.