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466 la divina commedia

     A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
102è impossibil che mai si consenta;
     però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
105è defettivo ciò ch’è lí perfetto.
     Omai sará piú corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
108che bagni ancor la lingua a la mammella.
     Non perché piú ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
111che tal è sempre qual s’era davante;
     ma per la vista che s’avvalorava
in me, guardando, una sola parvenza,
114mutandom’io, a me si travagliava.
     Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
117di tre colori e d’una contenenza;
     e l’un da l’altro, come iri da iri,
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
120che quinci e quindi igualmente si spiri.
     Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi
123è tanto, che non basta a dicer ‘ poco ’.
     O luce eterna che sola in te sidi,
sola t’intendi e, da te intelletta
126e intendente te, ami e arridi!
     Quella circulazion, che sí concetta
pareva in te come lume reflesso,
129da li occhi miei alquanto circunspetta,
     dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige;
132per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
     Qual è ’l geométra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
135pensando, quel principio ond’elli indige,