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paradiso - canto xxiii 417

     e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
33nel viso mio, che non la sostenea.
     Oh Beatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
36è virtú da cui nulla si ripara.
     Quivi è la sapienza e la possanza
ch’aprí le strade tra ’l cielo e la terra,
39onde fu giá sí lunga disianza».
     Come foco di nube si disserra
per dilatarsi sí che non vi cape,
42e fuor di sua natura in giú s’atterra,
     la mente mia cosí, tra quelle dape
fatta piú grande, di se stessa uscío,
45e che si fesse rimembrar non sape.
     «Apri li occhi e riguarda qual son io:
tu hai vedute cose, che possente
48se’ fatto a sostener lo riso mio».
     Io era come quei che si risente
di visione oblíta e che s’ingegna
51indarno di ridurlasi a la mente;
     quand’io udi’ questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
54del libro che ’l preterito rassegna.
     Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polimnia con le suore fero
57del latte lor dolcissimo piú pingue,
     per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verría, cantando il santo riso
60e quanto il santo aspetto facea mero;
     e cosí, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
63come chi trova suo cammin riciso.
     Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
66noi biasmerebbe se sott’esso trema: