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36 la divina commedia

     Quivi ’l lasciammo, che piú non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
66per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
     Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s’appressa la cittá c’ha nome Dite,
69coi gravi cittadin, col grande stuolo».
     E io: «Maestro, giá le sue meschite
lá entro certe ne la valle cerno,
72vermiglie come se di foco uscite
     fossero». Ed ei mi disse: «Il foco eterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
75come tu vedi in questo basso inferno».
     Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
78le mura mi parean che ferro fosse.
     Non senza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
81«Usciteci» gridò: «qui è l’entrata».
     Io vidi piú di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
84dicean: «Chi è costui che senza morte
     va per lo regno de la morta gente?»
E ’l savio mio maestro fece segno
87di voler lor parlar secretamente.
     Allor chiusero un poco il gran disdegno,
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada,
90che sí ardito intrò per questo regno.
     Sol si ritorni per la folle strada:
provi, se sa; ché tu qui rimarrai
93che li hai scorta sí buia contrada».
     Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
96ché non credetti ritornarci mai.
     «O caro duca mio, che piú di sette
volte m’hai sicurtá renduta e tratto
99d’alto periglio che ’ncontra mi stette,