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paradiso - canto xvi 383

     Come s’avviva a lo spirar de’ venti
carbone in fiamma, cosí vid’io quella
30luce risplendere a’ miei blandimenti;
     e come a li occhi miei si fe’ piú bella,
cosí con voce piú dolce e soave,
33ma non con questa moderna favella,
     dissemi: «Da quel dí che fu detto ‘ Ave ’
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
36s’alleviò di me ond’era grave,
     al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
39a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
     Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si trova pria l’ultimo sesto
42da quei che corre il vostro annual gioco:
     basti de’ miei maggiori udirne questo;
chi ei si fosser e onde venner quivi,
45piú è tacer che ragionare onesto.
     Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ’l Battista,
48erano il quinto di quei ch’or son vivi;
     ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
51pura vedíesi ne l’ultimo artista.
     Oh quanto fòra meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
54e a Trespiano aver vostro confine,
     ch’averle dentro, e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
57che giá per barattare ha l’occhio aguzzo!
     Se la gente ch’al mondo piú traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
60ma come madre a suo figlio benigna,
     tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
63lá dove andava l’avolo a la cerca;