Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/362

356 la divina commedia

     Io vidi piú fulgor vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
66piú dolci in voce che in vista lucenti:
     cosí cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l’aere è pregno
69sí, che ritenga il fil che fa la zona.
     Ne la corte del cielo, ond’io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
72tanto che non si posson trar del regno;
     e ’l canto di quei lumi era di quelle:
chi non s’impenna sí che lá su voli,
75dal muto aspetti quindi le novelle.
     Poi, sí cantando, quelli ardenti soli
si fur girati intorno a noi tre volte,
78come stelle vicine a’ fermi poli,
     donne mi parver non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite, ascoltando
81fin che le nuove note hanno ricolte;
     e dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando
lo raggio de la grazia, onde s’accende
84verace amore e che poi cresce amando,
     multiplicato in te tanto resplende,
che ti conduce su per quella scala
87u’ senza risalir nessun discende;
     qual ti negasse il vin de la sua fiala
per la tua sete, in libertá non fòra
90se non com’acqua ch’al mar non si cala.
     Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia
93la bella donna ch’al ciel t’avvalora.
     Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
96u’ ben s’impingua se non si vaneggia.
     Questi che m’è a destra piú vicino,
frate e maestro fummi, ed esso Alberto
99è di Cologna, e io Thomas d’Aquino.