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paradiso - canto ix 351

     Qui si tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
66in che si mise com’era davante.
     L’altra letizia, che m’era giá nota
per cara cosa, mi si fece in vista
69qual fin balasso in che lo sol percuota.
     Per letiziar lá su fulgor s’acquista,
sí come riso qui; ma giú s’abbuia
72l’ombra di fuor, come la mente è trista.
     «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia,»
diss’io «beato spirto, sí che nulla
75voglia di sé a te puot’ esser fuia:
     dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
78che di sei ali fatt’han la coculla,
     perché non satisface a’ miei disii?
Giá non attendere’ io tua dimanda,
81s’io m’intuassi come tu t’inmii».
     «La maggior valle in che l’acqua si spanda»
incominciaro allor le sue parole
84«fuor di quel mar che la terra inghirlanda,
     tra’ discordanti liti, contra ’l sole
tanto sen va, che fa meridiano
87lá dove l’orizzonte pria far suole.
     Di quella valle fu’ io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
90parte lo Genovese dal Toscano.
     Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’io fui,
93che fe’ del sangue suo giá caldo il porto.
     Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
96di me s’imprenta, com’io fe’ di lui;
     ché piú non arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo ed a Creusa,
99di me, in fin che si convenne al pelo;