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purgatorio - canto xxv 267

     Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lacrime e’ sospiri
105che per lo monte aver sentiti puoi.
     Secondo che ci affliggono i disiri
e li altri affetti, l’ombra si figura;
108e quest’è la cagion di che tu miri».
     E giá venuto a l’ultima tortura
s’era per noi, e vòlto a la man destra,
111ed eravamo attenti ad altra cura.
     Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
e la cornice spira fiato in suso
114che la reflette e via da lei sequestra;
     ond’ir ne convenía dal lato schiuso
ad uno ad uno; e io temea il foco
117quinci, e quindi temea cadere giuso.
     Lo duca mio dicea: «Per questo loco
si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
120però ch’errar potrebbesi per poco».
     ‛ Summae Deus clementiae ’ nel seno
al grande ardore allora udi’ cantando,
123che di volger mi fe’ caler non meno:
     e vidi spirti per la fiamma andando;
per ch’io guardava a loro e a’ miei passi
126compartendo la vista a quando a quando.
     Appresso il fine ch’a quell’inno fassi,
gridavano alto: ‛ Virum non cognosco ’;
129indi ricominciavan l’inno bassi.
     Finitolo anco, gridavano: «Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
132che di Venere avea sentito il tosco».
     Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fur casti
135come virtute e matrimonio imponne.
     E questo modo credo che lor basti
per tutto il tempo che ’l foco li abbrucia:
138con tal cura conviene e con tai pasti
     che la piaga da sezzo si ricucia.