Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/266

260 la divina commedia

     Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila, e Bonifazio
30che pasturò col rocco molte genti.
     Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio
giá di bere a Forlí con men secchezza,
33e sí fu tal che non si sentí sazio.
     Ma come fa chi guarda e poi si prezza
piú d’un che d’altro, fe’ io a quel da Lucca,
36che piú parea di me voler contezza.
     El mormorava; e non so che ‛ Gentucca ’
sentiv’io lá ov’el sentía la piaga
39de la giustizia che sí li pilucca.
     «O anima» diss’io «che par sí vaga
di parlar meco, fa sí ch’io t’intenda,
42e te e me col tuo parlare appaga».
     «Femmina è nata, e non porta ancor benda,»
cominciò el «che ti fará piacere
45la mia cittá, come ch’uom la riprenda.
     Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
48dichiareranti ancor le cose vere.
     Ma dí s’i’ veggio qui colui che fuore
trasse le nove rime, cominciando
51Donne ch’avete intelletto d’amore ’».
     E io a lui: «I’ mi son un, che quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
54ch’e’ ditta dentro vo significando».
     «O frate, issa vegg’io» diss’elli «il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
57di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo.
     Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
60che de le nostre certo non avvenne;
     e qual piú a riguardare oltre si mette,
non vede piú da l’uno a l’altro stilo».
63E, quasi contentato, si tacette.