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256 la divina commedia

     Io dicea fra me stesso pensando: «Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
30quando Maria nel figlio diè di becco!»
     Parean l’occhiaie anella senza gemme:
chi nel viso de li uomini legge ‛ omo ’
33ben avría quivi conosciuta l’emme.
     Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
sí governasse, generando brama,
36e quel d’un’acqua, non sappiendo como?
     Giá era in ammirar che sí li affama,
per la cagione ancor non manifesta
39di lor magrezza e di lor trista squama,
     ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
42poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?»
     Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
45ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
     Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
48e ravvisai la faccia di Forese.
     «Deh, non contendere a l’asciutta scabbia,
che mi scolora» pregava «la pelle,
51né a difetto di carne ch’io abbia;
     ma dimmi il ver di te, e chi son quelle
due anime che lá ti fanno scorta:
54non rimaner che tu non mi favelle!»
     «La faccia tua, ch’io lagrimai giá morta,
mi dá di pianger mo non minor doglia»
57rispos’io lui «veggendola si tòrta.
     Però mi dí, per Dio, che sí vi sfoglia:
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
60ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».
     Ed elli a me: «De l’eterno consiglio
cade virtú ne l’acqua e ne la pianta
63rimasa dietro ond’io sí m’assottiglio.