«Costoro e Persio e io e altri assai»
rispose il duca mio «siam con quel greco 102che le Muse lattar piú ch’altro mai,
nel primo cinghio del carcere cieco:
spesse fiate ragioniam del monte 105che sempre ha le nutrici nostre seco. Euripide v’è nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piúe 108greci che giá di lauro ornar la fronte.
Quivi si veggion de le genti tue
Antigone, Deifile ed Argia, 111e Ismenè sí trista come fue;
védeisi quella che mostrò Langía:
èvvi la figlia di Tiresia e Teti 114e con le suore sue Dedamía».
Tacevansi ambedue giá li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno, 117liberi dal salire e da’ pareti;
e giá le quattro ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la quinta er’al temo, 120drizzando pur in su l’ardente corno,
quando il mio duca: «Io credo ch’a lo stremo
le destre spalle volger ne convegna, 123girando il monte come far solemo».
Cosí l’usanza fu lí nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto 126per l’assentir di quell’anima degna.
Elli givan dinanzi, e io soletto
di retro, e ascoltava i lor sermoni, 129ch’a poetar mi davano intelletto.
Ma tosto ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada, 132con pomi a odorar soavi e boni;
e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, cosí quello in giuso, 135cred’io, perché persona su non vada.