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purgatorio - canto xxii 253

     «Costoro e Persio e io e altri assai»
rispose il duca mio «siam con quel greco
102che le Muse lattar piú ch’altro mai,
     nel primo cinghio del carcere cieco:
spesse fiate ragioniam del monte
105che sempre ha le nutrici nostre seco.
     Euripide v’è nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piúe
108greci che giá di lauro ornar la fronte.
     Quivi si veggion de le genti tue
Antigone, Deifile ed Argia,
111e Ismenè sí trista come fue;
     védeisi quella che mostrò Langía:
èvvi la figlia di Tiresia e Teti
114e con le suore sue Dedamía».
     Tacevansi ambedue giá li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
117liberi dal salire e da’ pareti;
     e giá le quattro ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la quinta er’al temo,
120drizzando pur in su l’ardente corno,
     quando il mio duca: «Io credo ch’a lo stremo
le destre spalle volger ne convegna,
123girando il monte come far solemo».
     Cosí l’usanza fu lí nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
126per l’assentir di quell’anima degna.
     Elli givan dinanzi, e io soletto
di retro, e ascoltava i lor sermoni,
129ch’a poetar mi davano intelletto.
     Ma tosto ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada,
132con pomi a odorar soavi e boni;
     e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, cosí quello in giuso,
135cred’io, perché persona su non vada.