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242 la divina commedia

     Queste parole m’eran si piaciute,
ch’io mi trassi oltre per aver contezza
30di quello spirto onde parean venute.
     Esso parlava ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
33per condurre ad onor lor giovinezza.
     «O anima che tanto ben favelle,
dimmi chi fosti,» dissi «e perché sola
36tu queste degne lode rinnovelle.
     Non fia senza mercé la tua parola,
s’io ritorni a compiér lo cammin corto
39di quella vita ch’al termine vola».
     Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto
ch’io attenda di lá, ma perché tanta
42grazia in te luce prima che sie morto.
     Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
45sí che buon frutto rado se ne schianta.
     Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saría vendetta;
48e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
     Chiamato fui di lá Ugo Ciappetta:
di me son nati i Filippi e i Luigi
51per cui novellamente è Francia retta.
     Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
54tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi,
     trovaimi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
57di nuovo acquisto, e sí d’amici pieno,
     ch’a la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
60cominciar di costor le sacrate ossa.
     Mentre che la gran dote provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
63poco valea, ma pur non facea male.