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220 la divina commedia

     vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistráto».
102E ’l signor mi parea, benigno e mite,
     risponder lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
105se quei che ci ama è per noi condannato?»
     Poi vidi genti accese in foco d’ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
108gridando a sé pur: «Martira, martira!»
     e lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava giá, inver la terra,
11ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
     orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a’ suoi persecutori,
114con quello aspetto che pietá disserra.
     Quando l’anima mia tornò di fuori
a le cose che son fuor di lei vere,
117io riconobbi i miei non falsi errori.
     Lo duca mio, che mi potea vedere
far sí com’uom che dal sonno si slega,
120disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
     ma se’ venuto piú che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
123a guisa di cui vino o sonno piega?»
     «O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
io ti dirò» diss’io «ciò che m’apparve
126quando le gambe mi furon sí tolte».
     Ed ei: «Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
129le tue cogitazion, quantunque parve:
     ciò che vedesti, fu perché non scuse
d’aprir lo core a l'acque de la pace
132che da l’eterno fonte son diffuse.
     Non dimandai ‛ Che hai? ’ per quel che face
chi guarda pur con l’occhio che non vede,
135quando disanimato il corpo giace;