Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
CANTO XXXIII
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
3del capo ch’elli avea di retro guasto;
poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinnovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
6giá pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser den seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
9parlare e lacrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’, né per che modo
venuto se’ qua giú; ma fiorentino
12mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
15or ti dirò perch’i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
18e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
ciò è come la morte mia fu cruda,
21udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
Breve pertugio dentro da la muda
la qual per me ha il titol de la fame,
24e ’n che conviene ancor ch’altri si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
piú lune giá, quand’io feci ’l mal sonno
27che del futuro mi squarciò ’l velame.