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128 la divina commedia

     Qual sovra ’l ventre, e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
69si trasmutava per lo tristo calle.
     Passo passo andavam senza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
72che non potean levar le lor persone.
     Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
75dal capo al piè di schianze macolati;
     e non vidi giá mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal signorso,
78né a colui che mal volentier vegghia,
     come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé, per la gran rabbia
81del pizzicor, che non ha piú soccorso;
     e sí traevan giú l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
84o d’altro pesce che piú larghe l’abbia.
     «O tu che con le dita ti dismaglie,»
cominciò ’l duca mio a l’un di loro
87«e che fai d’esse tal volta tanaglie,
     dinne s’alcun latino è tra costoro
che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
90eternalmente a cotesto lavoro».
     «Latin siam noi, che tu vedi sí guasti
qui ambedue;» rispose l’un piangendo
93«ma tu chi se’ che di noi dimandasti?»
     E ’l duca disse: «I’ son un che discendo
con questo vivo giú di balzo in balzo,
96e di mostrar lo ’nferno a lui intendo».
     Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascun a me si volse
99con altri che l’udiron di rimbalzo.
     Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: «Dí a lor ciò che tu vuoli»;
102e io incominciai, poscia ch’ei volse: