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inferno - canto xxix 127

     «O duca mio, la violenta morte
che non li è vendicata ancor» diss’io
33«per alcun che de l’onta sia consorte,
     fece lui disdegnoso; ond’el sen gío
senza parlarmi, sí com’io estimo:
36e in ciò m’ha el fatto a sé piú pio».
     Cosí parlammo infino al luogo primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
39se piú lume vi fosse, tutto ad imo.
     Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sí che i suoi conversi
42potean parere a la veduta nostra,
     lamenti saettaron me diversi,
che di pietá ferrati avean li strali;
45ond’io li orecchi con le man copersi.
     Qual dolor fòra, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre,
48e di Maremma e di Sardigna i mali
     fossero in una fossa tutti insembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
51qual suol venir de le marcite membre.
     Noi discendemmo in su l’ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
54e allora fu la mia vista piú viva
     giú ver lo fondo, lá ’ve la ministra
de l’alto sire infallibil giustizia
57punisce i falsador che qui registra.
     Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
60quando fu l’aere sí pien di malizia,
     che li animali infino al picciol vermo
cascaron tutti; e poi le genti antiche,
63secondo che i poeti hanno per fermo,
     si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
66languir li spirti per diverse biche.