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118 la divina commedia

     dimmi se i Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui de’ monti lá intra Urbino
30e ’l giogo di che Tever si disserra».
     Io era in giuso ancora attento e chino,
quando ’l mio duca mi tentò di costa,
33dicendo: «Parla tu; questi è latino».
     E io, ch’avea giá pronta la risposta,
senza indugio a parlare incominciai:
36«O anima che se’ lá giú nascosta,
     Romagna tua non è, e non fu mai,
senza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
39ma ’n palese nessuna or vi lasciai.
     Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aquila da Polenta la si cova,
42sí che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
     La terra che fe’ giá la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
45sotto le branche verdi si ritrova;
     e ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio
che fecer di Montagna il mal governo,
48lá dove soglion fan de’ denti succhio.
     Le cittá di Lamone e di Santerno
conduce il lioncel dal nido bianco,
51che muta parte da la state al verno;
     e quella cu’ il Savio bagna il fianco,
cosí com’ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,
54tra tirannia si vive e stato franco.
     Ora chi se’, ti priego che ne conte:
non esser duro piú ch’altri sia stato,
57se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte».
     Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
60di qua, di lá, e poi dié cotal fiato:
     «S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
63questa fiamma staría senza piú scosse;