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inferno - canto xxiv 105

     Né o sí tosto mai né i si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
102convenne che cascando divenisse;
     e poi che fu a terra sí distrutto,
la cener si raccolse per se stessa,
105e ’n quel medesmo ritornò di butto.
     Cosí per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
108quando al cinquecentesimo anno appressa:
     erba né biada in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lacrime e d’amomo,
111e nardo e mirra son l’ultime fasce.
     E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
114o d’altra oppilazion che lega l’uomo,
     quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
117ch’elli ha sofferta, e guardando sospira;
     tal era il peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
120che cotai colpi per vendetta croscia!
     Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispose: «Io piovvi di Toscana,
123poco tempo è, in questa gola fèra.
     Vita bestial mi piacque e non umana,
sí come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
126bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
     E io al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giú ’l pinse;
129ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci».
     E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
132e di trista vergogna si dipinse;
     poi disse: «Piú mi duol che tu m’hai còlto
ne la miseria dove tu mi vedi,
135che quando fui de l’altra vita tolto.