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Tale amara doglianza uscì dalla penna del celebre Fenelono, il quale dietro alle nobili tracce dell’Odissea prese a dipingere le avventure del figliolo di Ulisse. Non solo si accorse quel grande ingegno dei difetti della propria lingua, come nel maneggiarla aveano fatto tanti altri; ma cercò ancora di adempiergli nel miglior modo che fosse possibile e trovar loro largamente compenso. Con una ragionatissima sua scrittura si fece egli innanzi all’Accademia di Francia. In essa espone la mala condizione, la povertà di una favella, che è parlata, dic’egli, da una nazione sortita appena dalla barbarie. Mostra come volendola migliorare s’era peggiorata, come i rimedi che sino allora erano stati messi in opera, non altro aveano fatto che accrescere il male; eccessiva di troppo essere stata la stitichezza di coloro che seduto aveano i primi in quel tribunale tanto agli scrittori nemico; esser ben giusto che della passata severità si rimettesse alquanto, conosciuto il disordine che ne era venuto; doversi al contrario usare di quella libertà di cui avea abusato Ronsardo; da ogni parte doversi accattare e trascegliere voci, espressioni, e maniere; farne, secondo il bisogno, provvisione e massa; talmente che si venisse a rimpastare e a riconiare, per dir così, la lingua francese;