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un qualche torto venisse fatto alla nostra favella col Vocabolario singolarmente della Crusca; quasi che con esso siasi voluto fermare il corso di una lingua vivente, e segnandone i limiti, siasi anche preteso assegnarne per sempre i confini. Ma tale non è da credere sia stata la intenzione degli Accademici. Non avvisarono essi forse mai che il contare le nostre ricchezze fosse uno sminuirle o impedire altrui il modo di accrescerle. Pensarono piuttosto che, quantunque l’uso governi a suo talento le lingue, faccia invecchiare tal voce e la metta fuori dal consorzio, a tale altra dia vita e fiore di gioventù, pur è ben fatto che ci sia una generale conserva della lingua; e pensarono che nelle dubbietà ed incertezze grammaticali l’autorità degli scrittori veramente classici dovesse esser quello che nella milizia è la insegna a cui ricorrono i soldati, se per qualche accidente sieno posti in disordine.
Quanto all’Accademia di Francia, furono per avventura più fondati i romori che contro ad essa si levarono. Ciò che regolò la lingua francese fu non tanto l’uso, a cui non si badò gran fatto, né tampoco l’autorità degli classici scrittori, a cui ricorrere non poteano, quanto il gusto di coloro che sedeano a quel tempo nel tribunale dell’Accademia. Insieme col Vaugelas, che ebbe la cura del Dizionario e della Grammatica, erano di grande autorità i Capellani, i Faret, i Desmarets, i Colletet, i Saint-Aman, i Baudoin, i Godeau; autori la più parte sepolti nella obblivione o noti soltanto perché