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di scrivere nella propria lingua 341

quando egli avesse proseguito giusta quel suo principio:

Infera regna canam supero contermina mundo.

Che se a cagione del poema latino dell’Affrica fu coronato il Petrarca in Campidoglio, conviene considerare che ciò avvenne in tempi che il raccozzare pochi versi in quella lingua era tenuto a miracolo; e la verità si è che il Petrarca non per altro è famoso, letto e studiato, che per le sue rime volgari.

Degna adunque di somma lode, per quanto in favore della lingua latina vadano predicando gli Aldi, i Romoli Amasei ed altri simili invasati nell’antichità, è la usanza che si va di dì in dì facendo più comune, che ogni scrittore, là dove specialmente gioca la fantasia, scriva nel materno suo linguaggio. In esso solamente gli è conceduto di esercitare tutte le sue forze, di spiegarle con franchezza e disinvoltura; come a quel soldato che non si serve della corazza e de’ braccialetti altrui, ma ha l’armatura fatta al suo dosso. In tal modo solamente potrà nutrire fondata speranza di emulare quei Greci e quei Latini che scrissero essi pure nel proprio loro linguaggio, in quello cioè che si affaceva unicamente a’ loro modi di sentire, di apprendere, di pensare; e potrà con ragione appropriarsi di quelle memorabili parole di Dante,

. . . . . I’ mi son un che quando
Natura spira, noto et a quel modo
che detta dentro, vo significando;

che è il solo mezzo di giugnere alle altezze più sublimi dell’arte.