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330 | saggio sopra la necessità |
dotte, di salire in fama a paro degli antichi maestri, e di levare nel mondo una più gran vampa di ammirazione del proprio ingegno, sono pure in effetto i mal consigliati coloro che si mettono a scrivere in altra lingua fuorchè nella lor propria e nativa. Diversi sono appresso nazioni diverse i pensamenti, i concetti, le fantasie; diversi i modi di apprendere le cose, di ordinarle, di esprimerle; onde il genio, o vogliam dire la forma di ciascun linguaggio riesce specificamente diversa da tutti gli altri, come quella che è il risultato della natura del clima, della qualità degli studj, della religione, del governo, della estensione dei traffici, della grandezza dell’imperio, di ciò che constituisce il genio e l’indole di una nazione. A segno che una dissimilitudine grandissima conviene che da tutto ciò ne ridondi tra popolo e popolo, tra lingua e lingua; e i politici tengono per naturalmente nemici quei popoli che parlano lingue diverse.
Gli orientali hanno un metaforeggiare, starei per dire, così caldo quanto è il cielo che sotto al quale son nati. La lingua latina, ch’era nelle bocche d’un popolo di soldati, non è lingua così rotonda e soave come la greca, ma è più ardimentosa e concisa. Orazio paragonò l’una al falerno, vino gagliardo ed austero; l’altra al vino di Scio generoso ed amabile1. La nostra favella è maneggevole,
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. . . at sermo lingua concinnus utraque
suavior, ut Chio nota si commixta Falerni est.