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Dialogo Sesto. 273

ignoranza, e della debolezza umana i fi è ora alla fine pienamente compiuta. Se ne afpetta una di ritorno d’indi a ventitré anni del cinquantotto, e fpero che poffiam lufmgarci di oflervarla infieme, voi giovane, ed io non vecchio ancora. Voi farete l’Urania, che dirigerà certamente il mio cannocchiale. Qual mutazion di cofe, replicò la Marchefa, in quello Siflema! lo cangiata in Urania, e in giovane, in una età, in cui impulitezza diviene il difcorrer d’anni, c il non apparir di una Cometa refo più fu netto dell’apparire. Ella noti apparirà, rifpos’io, che troppo pretto a ricordarci il noitro tempo pattato, e la nottra attrazione. Noi porrem dire, foggiuns’ella, in quello cafo tutto al contrario dell’ordinario detto,

Quanto affettata più, tanto più cara.

Gran felicità in vero di cfferc ora Agronomo; Eglino almeno non afpettano in damo. E qual piacere per effi, mercè quello Siftema, che gli fa dominare in ogni cofa quel Ciclo, che è l’oggetto delle loro pretenfioni, e de’ loro progetti.

Niente, rifpos’io, fu più curiofo per effi, e più gloriofo infiemc pel Siftema Newtoniano della congiunzione di Giove, e di Saturno, che a cader venne nel principio di quefto fecolo di tanti avvenimenti gravido, e fecondo. Quelli due gran Pianeti doveano avvicinarli fra loro, il che per la gran vaftità delle loro orbite, e pel tempo, che impiegano a defcriverle, non avvien così fovente. Se mai era fperabile di vedere gli effetti di quella vicendevole attrazione nel turbare, ed