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258 | Dialogo Sesto. |
può dire, che Ogni tftante la Tua efiftenza, e le f ue ir refiaibillcggi dichiara.
Una cosa, ripigliò ella, mi viene in mente, penfando alla fcambievolezza di qnékÉ attraz 5, che iq non ardifeo però di. proporre come obbiezione ad un Stilema, a cui i F.tofofi b£di di profvuìone debbono fgomentarii di farne M mre che noi dovemmo, fe non ogni litanie, affai Foven e però vederne gli effetti ne corpi, che et circolano, ficcome nella Infletto dell’attrazione, che la Terra efercita verfo di elfi. Un leggier corpicciuolo, come una piuma, pollo che fi a ricino d un gran Palagio, K Collina, fé volete, o d’altra fimil cofa, la cuTattrazioneVia grande, perchè non dorremmo noi vederla ubbidir torto a quella forza, che a fe la trasse, e verfo il Palagio, o la Collina lanciarfi come pur dovrebbe? Quando una fornffima paffione, replicai io, occupa l’animo noftro, perchè avv en’eglt mai, che le più fievoli e leggiere non fon da%oi fenure, fe non perchè la paffìon forte,l’anima tutta iicchè della impreflion delle «inori, ella non s’accorge neppure, e talora mfenfìbile per altre divieni che non fon per fe mede ime, n F ciole nè leggiere. Il furore da cui per Ippolito ore a è Fedra in Racinc.non le lafcia fentir quelL cos comune al bel feffo, e co;, forte paffione | parer bella. I fuoi veli, e la fua onc fono in quel difordine, in cui non gl avrebbe forfè porfi, nè la lontananza, ne la morte delluo Tefeo. loVigtendo, dille U Marchefa, voi vi