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Dialogo Sesto. 255

Dea Triforme, qual la vagheggiamo ora, ma peregrina, e dal più bella de’ Tuoi tre regni decaduta, e non più l’ornamento del Ciclo tra gli amici filenzj della notte. E Jo lieifo fonano 1 Pianeti, fe in uno fpazio pieno fi muo veliero: 1 miali, qual più prefto, e qual più cardi, nel Sole cadrebbero ad accrefeer vaftirà di materia a quell’immenfo Vulcano colafsù brugtante, che non averebbe più allora in voto Regno chi gentilmente animar della Tua luce, nè a cut difpenfare il giorno, e l’anno; poiché e le Comete, e noi fleffi colla noftra Luna, fe impedito ne folle dal! Etere il cammino, andremmo pure ad affogamo, entro; il che farebbe una novella punizione a’ fccoli di colpe fecondi nel filtema di quell’I ìglefe, che à fatto del gloriofo corpo del sole la Ragion del pianto il foggiorno dell’eterna detrazione.

Per altro io vi ameuro, continuai io, per parlar, come lì fuol dire, di cofe allegre, che 10 correrei de’ primi allo fpettacolo di veder la Luna cader nella Terra. Qual piacere in fatti non iartòbe egli di vedere a mi fura ch’ella s’avvicinane a noi, quella faccia, quella bocca, e quel nafo, che noi colf immaginazione più che cogli occhi le vediamo, cangiarfi a poco a poco in gran montagne, in valli, in tratti di pianure, ed altre tali cofe, delle quali il comune degli uomini farebbe certamente maravigliato, e che i Filofori medefimi, che non domano mai abbastanza que’ due gran nemici della ragione, l’immaginazione, e il pregiudizio, non kfeierebbono di vedere