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208 Dialogo Quinto.

mifturc i Mongìbelìi e i Vefuvj, ed imitandone il tuono molto xneglio, che il temerario loro Saimoneo.

Se foffe flato, per e fé m pio, propolto ad un’Antico, fé il Fosforo di Bologna riluca di una luce fua propria, o pure dì una luce altrui; Dio fa quante follie egli averebbe detto la ragion confutando, laddove un Moderno con una fola fperienza à pollo la cofa fuor d’ogni quifrìone. Che cofa è in grazia, diffe la Marchefa, quefto Fosforo, che è il foggerto delle follie dell’Antico, e della fperienza del Moderno? Egli è una certa pietra, rifpos’io, che fi trova in un monte vicin di Bologna, la quale calcinata che fia dal fuoco, acquifla la proprietà di rifplendere al bujo a guifa d’una bragia, fiata ch’ella è per alcun poco di tempo efpofta al Sole, o pure anco folamente ali* aria aperta; E quindi ella à meritato il bel Greco nome di Fosforo, che vuol dire apportator di luce; onore che ànno quafi tutte le cofe, che fervono agli ufi dotti. Un’erudito non potrebbe forfè chiamar con altro nome quello luogo, che con quello di Foslofo, che Tuona in volgare collina della luce, e lo confacrerebbe in tal modo per fen-pre alla Filofofìa, ed all’Erudizione. Grazie al volito erudito, difs’ella, che quello luogo non è così disgraziato da non trovare anco per lui un bel nome, dopo di averfelo meritato tanto.

Ora la quiliione, continuai io, fi riduce a fa pere, fe queiìo Fosforo altro non faccia, che ricever dentro a fe ed imbeverfi del lume, a cui egli è efpolto, onde poi portato al bujo rifplenda