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sesta 113

Ma già dell’ampia Valle a noi le apriche
     Piagge apparían, di vaghi fior coverte
     315E di verdi erbe a impallidir nemiche.
Alle dolci acque da’ bei rivi offerte
     Giacca prostrata innumerabil turba
     318A braccia stese e colle labbra aperte;
E l’acque, il corso a cui mai non perturba
     Limo od alga, scendean da un monte alpestre,
     321Cui nebbia o nube il capo altier non turba,
Perchè ardea su la cima alta e silvestre
     Sì chiaro un Sol, che par di raggi privo
     324Quel che sorge a fugar l’ombra terrestre.
Talor sembrava inaridirsi un rivo,
     Mentre un altro da lungi entro le sponde
     327Gonfio crescea di limpid’acque e vivo.
Nè l’eterna, che in lor virtù s’infonde,
     Valea soltanto ad ammorzar la sete,
     330Ma purissimo il cor rendean quell’onde.
Qui fin del Globo dall’oscure mete
     Vario accorrea popol di volti e lingue;
     333E quel, che i campi dell’aurora miete,
E quel, cui dal color bianco distingue
     Nell’arsa Etiopia l’annerita pelle;
     336E quel, cui lunga notte il giorno estingue
Là dove regna il freddo Arturo, e svelle
     Dalle piante il vigor coi moti pigri
     339Delle sue tarde aquilonari stelle.
Qui adorno pur delle squojate tigri
     Stuolo d’abitator fieri si tragge
     342Dal grand’Eufrate e dall’Armeno Tigri.
Nè delle nuove Americane spiagge
     Manca il rozzo cultor, oh colpa infame!
     345Uso le belve ad imitar selvagge