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50 | VITA DI VITTORIO ALFIERI. |
[1759] teva ascoltatori dei suoi racconti, se non se a retribuzione di vettovaglie. Comunque accadesse dunque questa mia acquisizione, io m’ebbi un Ariosto. Lo andava leggendo quà e là senza metodo, e non intendeva neppur per metà quel ch’io leggeva. Si giudichi da ciò quali dovessero essere quegli studj da me fatti fino’a quel punto; poiché io, il principe di codesti Umanisti, che traduceva pur le Georgiche, assai più difficili dell’Eneide, in prosa Italiana, era imbrogliato d’intendere il più facile dei nostri Poeti. Sempre mi ricor’derò, che nel Canto d’Alcina, a quei bellissimi passi che descrivono la di lei bellezza io mi andava facendo tutto intelletto per capir bene; ma troppi dati mi mancavano di ogni genere per arrivarci. Onde i due ultimi versi di quella Stanza,
„Non così strettamente edera preme,”
non mi era mai possibile d’intenderli; e tenevamo consiglio col mio competitore di scuola, che non li penetrava niente più di me, e ci perdevamo in un mare di congetture. Questa furtiva lettura e commento su l’Ariosto finì, che l’Assistente essendosi avvisto che andava per le mani nostre un libruccio il quale veniva immediatamente occultato al di lui apparire,