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EPOCA TERZA. CAP XV. *67 mi paresse di doverle, come im autentico rao- *775. numento della mia imperizia in ogni conveVoi d’ogni autor peggiori, che spiate * Le faccende d’ognuno, e poi le dite. Ed a chi non le cura le ridite, Della stoltezza voi, quasi abusate. Voi che inimici al ver, già posto in bando Crudamente l’avete, a chi direste Le sciapite bugiuzze, tacereste Se i stolti non le stessero ascoltando. Le velenose lingue, e nou acute Che di mordere han voglia, e mal lo fanno Cangieriano mestier, se il barbagianno Non le trovasse poi pronte ed argute. Insomma canterei tre giorni interi, Nè del ricco soggetto la bellezza, Nè degli ornati suoi la Vaga ampiezza Io descriver saprei; voglionvi Omeri. In due versi però composti a stento Spiegheròvvi il fallace mio pensiero. Dico, e ho inteso a dir che il mondo intiero Da stolidezza è retto a suo talento. E voi che qui l’orecchie spalancate Per burlarvi di me, Censor severi E in vestigar miei carmi falsi, e veri, Se lo stolto non foMÀ^ allor che fate?