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64 vittorio alfieri


LXXX.

Era l’ora del giorno, in cui l’estive
Aure infocate dal Leon celeste
Han lor saette, al passegger moleste,
Per l’imminente notte assai men vive;

Quand’io, com’uom che tutto in altri vive,
Pieno il pensier d’immagini funeste,
Venía soletto cavalcando, e meste
Le luci alzava non di pianto prive.

Ver l’austro io muovo; a destra ultimi raggi
Mi manda il Sole a dipartirsi tardo;
Cinzia da manca invia già i suoi messaggi:

Ecco in mezzo del ciel, ratto, gagliardo
Un lume... Oh vista, che lo cor m’irraggi!
Tu se’ colei ch’io veggio, ovunque io sguardo.

LXXXI.

Te chiamo a nome il dì ben mille volte;
Ed in tua vece, morte a me risponde:
Morte, che me di là dalle triste onde
Di Stige appella, in guise orride e molte.

Cerco talor sotto le arcate volte
D’antico tempio, ove d’avelli abbonde,
Se alcun par d’alti amanti un sasso asconde,
E tosto ivi entro le luci ho sepolte:

Sforzato poi da immenso duolo, io grido:
Felici, o voi, cui breve spazio serra,
Cui più non toglie pace il mondo infido! —

È vita questa, che in continua guerra
Meniam disgiunti, d’uno in altro lido?
Meglio indivisi fia giacer sotterra.